La nostra grande avventura nella Valle dell’Omo
LORO
“Popoli della Valle dell’Omo, dove tutto è iniziato” recitava il titolo del viaggio in Etiopia. Io dico: dove tutto è rimasto lì nella notte dei tempi. Dal canto mio credo di aver scoperto il “buco nero” dell’Africa. In tutti i sensi. Un buco dal quale quelle popolazioni faticano ad uscire perché legate a tradizioni ancestrali condite con un intruglio di magia, religiosità e tradizioni varie; un buco dove si frustano le donne forse per puro predominio maschile e dove queste vittime si beano di ferite sanguinanti e di piaghe virulente che esibiscono con chissà quale orgoglio anche quando diventano orribili cicatrici sulla schiena; un buco dove il giovane maschio è sottoposto a iniziazione col rischio di essere espulso a vita dalla società se non riesce a saltare su un palcoscenico fatto di schiene di tori, anzi di zebù, frastornati da chiassosi balli e schiamazzi tribali; un buco dove le donne per essere più belle si massacrano il labbro per inserirvi un piattello sempre più grande e sempre più pesante.
Avevo già visitato l’Etiopia nella regione del Tigray e dello Scioa e ne ero rimasta impressionata profondamente sia per il livello di povertà di quel popolo che cammina e sia per la bellezza delle chiese rupestri e per la maestosità dei picchi montuosi. Ma stavolta a colpirmi è stata l’arretratezza in termine assoluto. Si dirà: siamo sicuri che il progresso sia la forma migliore del vivere? Forse non lo siamo. Ma constatare che al mercato vendono persino la pietra levigata e il sasso per frantumare i semi per farne farina, beh… la cosa la dice lunga. Credo che non ci voglia molto per costruire un seppur rudimentale macinino. D’altronde se per arare trascinano ancora un bastone di legno per fendere le zolle, significa che siamo ben lontani dal mettere in moto una qualsivoglia inventiva per migliorare lo stato del vivere.
Deludenti, secondo me, sono state le guide locali Michelangelo e Andrea, scoordinate e confusionarie nelle rare spiegazioni al gruppo riunito, ma talvolta date a gruppetti estemporanei: chi c’era c’era e gli altri dovevano accontentarsi del passa parola. Soprattutto la prima guida si limitava a dare sfoggio di cultura generale sull’origine delle etnie, ma con gravi lacune nel riferire – o con volontà di mascherare – realtà evidenti che ancora isolano il Paese in un mondo che corre.
NOI
Ma tralasciamo i miei ragionamenti personalissimi sulla qualità della vita nel sud dell’Etiopia e veniamo a noi 26 del Ctg partiti belli e pimpanti e ritornati impolverati e stremati. Ma felici, almeno per quanto mi riguarda. Sulla schiena ormai a pezzi avevamo chilometri e chilometri, ben 2500, sui fuoristrada in continuo sussulto e “schivanelle” per evitare non solo le voragini lungo il percorso (asfalto con solo tre anni di vita!), ma per non fare stragi di esseri viventi quali greggi, mandrie, uomini e bambini danzanti in mezzo alla strada.
Come detto, abbiamo visto davvero cose dell’altro mondo nella nostra grande avventura nella Rift Valley guidati da Anacleto. Una volta giunti in Africa – a parte l’inconveniente del museo di Addis Abeba senza energia elettrica – i più sono partiti subito alla grande con la calata nella bocca di un antico vulcano che forma il lago nero El Sod da cui si estrae il sale. Tutto bene in discesa, ma problemi in salita: se Maria Teresa era emersa dal cratere paonazza, Loredana era simil-cadavere. In una ipotetica gara al femminile la vittoria è stata conquistata da Loretta, tallonata da Bruna. Mentre la scalatrice Clara non si è potuta esprimere: a lei il compito di “scopa”. Tra i maschi non c’è stata storia: i soliti Leonildo, Elio, Lorenzo… dai muscoli di ferro.
A parte la parentesi “poverella” al Borana Lodge di Yabelo dove per rifare i letti – meglio dire giacigli – è bastato che tirassero su le coperte, siamo stati alloggiati abbastanza bene. Indimenticabile è stata la sfarzosa e affascinante Festa del Meskel a Jinka. La cerimonia per noi è stata ancor più coinvolgente dal momento che il nostro super operatore Efrem è stato invitato dalle troupe televisive locali a collaborare con loro e a salire sul palco principale per fare le riprese.
Intanto il viaggio nella Valle dell’Omo proseguiva tra popolazioni primitive e abbastanza ostili, che si ammorbidivano e si mettevano in mostra in cambio di una manciata di birr (pochi centesimi di euro). E così si susseguivano molte altre situazioni da zoo che francamente facevano stringere il cuore, o quanto meno riflettere. Eppure tutti noi, con i nostri rimorsi, lì ostinati a scattare le foto e magari a brontolare se qualcuno si metteva entro il nostro mirino.
Col passare dei giorni nei 7 fuoristrada della nostra carovana i singoli equipaggi rinsaldavano amicizie e ne creavano di nuove per poi ritrovarsi tutti insieme la sera nei lodge. Ma qui il bello – si fa per dire – era che ognuno stava per proprio conto a smanettare con gli smartphone che però il più delle volte non si connettevano con casa. Non solo i più giovani, a dire il vero di young c’era solo Verena, ma anche i più attempati non tiravano su lo sguardo dal display fino a quando immancabilmente non mancava la corrente.
Il bello di questi viaggi impegnativi è che i partecipanti sono un po’ Moschettieri: “tutti per uno e uno per tutti”. Se qualcuno non si sente bene ecco che scendono in campo gli “esperti”. E noi avevamo addirittura tre medici: Enrichetta, Laura ed Emanuele; e due super infermiere: Tiziana e Loredana. Non mancavano i consigli di Edda, il dinamismo di Ines, il sempre presente buon senso di Ivette, le battute pronte di Loris o il sorriso accomodante di Elena. Poi c’erano le professioniste del clic Bianca e Laura. A completare il gruppo numeroso, ma tutto sommato compatto, c’erano i meno “casinisti” Paola, Patrizia, Luisa e Alberto. Insomma nella Rift Valley etiope eravamo davvero una bella comitiva.
Maria Zampieri